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Sylvia Plath, Camille Claudel, Virginia Woolf
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I Grandi dalla scrittura

Presentare una sezione grafologica caratterizzata da un titolo così generico richiede qualche precisazione. Innanzitutto chi sono i grandi: grandi scienziati, grandi artisti, grandi condottieri, caratterizzati veramente da grande ingegno o soltanto da una grande ambizione e grandi capacità di intrigo? Già questo primo interrogativo richiederebbe una lunga serie di considerazioni che esulano dallo scopo della sezione. In secondo luogo, ci si chiede se sia lecito partire dal presupposto, apparentemente ovvio, che una persona sia diventata famosa a causa delle eccezionali capacità che possedeva, che spingevano in senso finalistico in una data direzione. Grafologicamente questo non risulta sempre vero. Inoltre questa forma di riduzionismo psicologico a volte risulta troppo pedante e anche irritante nello sforzo di voler spiegare in dettaglio come e perché sia successo tutto, senza riuscire di fatto a spiegare neanche in minima parte l’altezza e la complessità delle situazioni a cui certi personaggi giungono. Lo psicologo americano J. Hillman ha riproposto recentemente il concetto di ‘codice dell’anima’, vale a dire l’idea “che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.” (Il codice dell’anima, Adelphi Ed., p.21) Ciò che siamo, in questa prospettiva, non è il frutto delle circostanze, dell’ambiente, del carattere che abbiamo ereditato, ma questi sono solo strumenti che sollecitano la percezione dell’unicità del nostro destino e contribuiscono a realizzarlo. In termini grafologici, la scrittura non spiega il nostro destino e spiega solo in parte la nostra storia, in quanto la personalità costituisce uno dei mezzi attraverso i quali il destino individuale si compie. In questo senso l’anima ci sceglie per vivere la sua vita, per fare quella determinata esperienza della realtà, attraverso un certo corpo e una certa personalità che sono in grado di reggere quella esperienza. Per questo un avventuriero che scopre un continente sconosciuto non può avere la stessa struttura di personalità che consente a un altro di passare anni ad affrescare una cappella: al di là di quello che può essere il potenziale intellettivo di entrambi, uno ha bisogno di audacia, irrequietezza e intraprendenza per muoversi in spazi quasi infiniti e l’altro di dominio totale delle sue energie per portare a termine un compito in condizioni quasi di immobilità fisica. Ma queste tendenze sono strumenti, non fini, in quanto la personalità non può spiegare se stessa, ma fa appello ad altro che resta al di fuori di sé: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi e, guarda caso, si ha proprio quella struttura di personalità che ci consente di vivere quelle, e solo quelle, determinate esperienze. Nel raccontare le personalità dei grandi ci limiteremo, pertanto, a prendere atto della struttura della psiche attraverso l’evidenziazione dei principali segni grafologici, e soprattutto di quelli che hanno ‘segnato’ in modo vistoso, per la loro presenza, o la loro assenza, o il loro squilibrio, l’individuo in esame. Ma mentre esaminiamo quello che l’individuo mostra di se stesso attraverso la sua struttura di personalità, non si può dimenticare ciò che non c’è e non ci potrà mai essere nella scrittura: l’anima che ha dato necessità e direzione a quella esistenza.

Sylvia Plath, Camille Claudel, Virginia Woolf

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Camille Claudel (1864-1943)

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Camille Claudel, scultrice e sorella del poeta Paul, nata e cresciuta nella provincia francese, approda non ancora ventenne a Parigi con tutta la famiglia. Molto presto incontra Auguste Rodin, quarantenne e allora agli inizi di una carriera che sarà strepitosa, ne diventa l’allieva e, a un momento imprecisato, l’amante. Questo sodalizio affettivo e artistico dura diversi anni. Poi, nel 1893, Camille sceglie l’indipendenza (ha 29 anni), abbandona l’atelier di Rodin e intraprende una sua ricerca, incurante dei successi mondani, nell’oscurità e nella povertà. Ma in questa solitudine sempre più ostinatamente cercata Camille Claudel inizia a dare i primi segni di squilibrio: vede crescere la fama di Rodin e si sente derubata delle sue idee. A partire dal 1905 (ha 40 anni circa) queste ossessioni, queste angosce si trasformano in idee fisse, poi in psicosi. Rodin diventa nella fantasia di Camille la mente di un complotto che mira ad annientarla. La sua crisi di identità, che non riesce a risolvere, la isola sempre di più. Dal 1905 si mette a distruggere le sue opere, nel 1906 cessa ogni attività artistica. Nel 1913, all’età di 48 anni, su richiesta del fratello Paul, viene internata in un ospedale per malati di mente, di dove non uscirà che il giorno della sua morte, avvenuta trent’anni dopo. La sua malattia mentale, la catastrofe radicale della sua esistenza, rimane un mistero ampiamente inesplorato. Camille Claudel in manicomio non era né violenta né aggressiva; col passare degli anni diventò sempre più tranquilla e chiedeva insistentemente di tornare a casa. Ma per il fratello famoso sarebbe stata un peso e per la madre pure (“tenetevela, ve ne supplico … ha tutti i vizi, non voglio rivederla, ci ha fatto troppo male”, così scrive la madre al direttore del manicomio senza riuscire a perdonarle le sue scelte anticonformiste). Di questa sua esperienza Camille scrive in una lettera, 8 anni prima di morire: “Sono precipitata in un baratro … Del sogno che fu la mia vita, questo è l’incubo” (lettera a E. Blòt, 1935).

Alcuni biografi, per rendere la storia più comprensibile dal punto di vista del tragico destino di lei, vedono la sua carriera distrutta dalla viltà congiunta di due uomini: Rodin, il suo amante che l’ha sfruttata, e dello scrittore Paul Claudel, suo fratello, che l’ha fatta rinchiudere. Non credo sia possibile, tuttavia, senza alterare ampiamente i fatti, imputare a questi due uomini il suo crollo.

Da dove venivano le sue tendenze autodistruttive?

Se noi interroghiamo la grafologia per avere anche solo un vago indizio su che cosa possa essere successo per spiegare questa catastrofe a livello di personalità, bisogna riconoscere che qui non troveremo alcuna risposta diretta, perché non vi sono particolari squilibri nella grafia di Camille Claudel.

La scrittura, al contrario, presenta l’equilibrio della triplice larghezza, vale a dire il fondamento delle qualità che costituiscono l’autocontrollo dovuto a ponderazione, oltre che indice di facoltà ben sostenute a livello di profondità e di forza dell’intelligenza. Le sue facoltà intellettive, inoltre, vengono accentuate dalla presenza dei segni Angoli A (reattività), Mantiene il Rigo (fermezza), Attaccata (continuità), in quanto denotano la capacità di attivazione e di concretizzazione delle tendenze.

Il Disuguale metodico è presente, anche se in grado non elevatissimo, ma in combinazione con il segno Fluida; quindi indica la presenza di alcuni concetti originali che poi tendono a ripetersi. Diventa feconda nelle sue opere, ma non tanto originale.

La personalità, inoltre, è portata all’assimilazione per la presenza del segno Pendente, che rivela anche l’intensità del sentimento che tende ad affezionarsi fortemente e ad avere bisogno di un affetto intimo esclusivo. Qui troviamo degli indici un po’ contraddittori tra la contenutezza grafica complessiva e la pendenza grafica: da una parte il suo bisogno di essenzialità, di consumare in se stessa le impressioni che riceve, dall’altra la spinta all’affettività di abbandono. Il suo sentimento profondo nella sostanza (triplice larghezza), sicuro della forza della sua posizione (cenni di Ardita), portato anche alla reattività nella sua sensibilità (Angoli A) mal si adattava al ruolo che si era scelto: quello di giovane amante di un uomo sposato. La ponderazione è forte, la serietà del carattere pure e lo è anche l’affettività e questo rende di fatto impossibile accettare un ruolo di compartecipazione in campo affettivo. Se lo ha fatto, si è imposta un atteggiamento che non le apparteneva. Qui, inoltre, c’è una differenza di genere che andrebbe approfondita. Mentre mi sembra che a livello maschile venga retta con minori costi la duplice relazione moglie-amante, a livello femminile l’esperienza diventa fonte di maggiore sofferenza, per il diverso orientamento del sentimento maschile e femminile (è diversa l’enfasi posta nella polarità ‘oggettivizzazione/personalizzazione’ del partner sessuale).

Camille Claudel conosce le sue doti, la sua bravura, è una donna di grande sostanza, con qualche tratto di arditezza che forse lei stessa ha sopravvalutato, perché la struttura di fondo della personalità è basata sulla ponderazione (Largo tra parole) anche se non sempre lucida (larghezze non omogenee, alcuni ricci della confusione). Il segno Pendente è l’unico elemento che potrebbe averla portata fuori strada, non perché il segno sia così esagerato, ma perché va a rafforzare un carattere già molto determinato: affettivamente voglio questo e lo avrò. Lei apparentemente ha tutte le carte vincenti in mano con Rodin, è bella, giovane, intelligente, indispensabile a livello professionale da quanto è brava, ma nonostante questo lui non lascia la moglie per lei e perciò Camille deve riconoscere – a livello affettivo – di avere perso, lui aveva bisogno di entrambe. E per il segno Pendente ammettere questo non è certo facile, in quanto deve contrastare la propria tendenza primaria, che è quella di riversare il suo sentimento affettivo per ricevere affettività in modo esclusivo.

Però riconosciamo che in questo schema c’è qualcosa che va al di là delle caratteristiche di personalità e subentrano modalità comportamentali e reattive tipicamente femminili: la caduta nel pozzo nero dell’autodistruzione depressiva. La depressione diventa una modalità espressiva privilegiata del disagio femminile e penalizza tanto le donne tradizionali quanto, come abbiamo visto, il desiderio e il coraggio di essere una donna diversa.

I Grandi dalla scrittura

Presentare una sezione grafologica caratterizzata da un titolo così generico richiede qualche precisazione. Innanzitutto chi sono i grandi: grandi scienziati, grandi artisti, grandi condottieri, caratterizzati veramente da grande ingegno o soltanto da una grande ambizione e grandi capacità di intrigo? Già questo primo interrogativo richiederebbe una lunga serie di considerazioni che esulano dallo scopo della sezione. In secondo luogo, ci si chiede se sia lecito partire dal presupposto, apparentemente ovvio, che una persona sia diventata famosa a causa delle eccezionali capacità che possedeva, che spingevano in senso finalistico in una data direzione. Grafologicamente questo non risulta sempre vero. Inoltre questa forma di riduzionismo psicologico a volte risulta troppo pedante e anche irritante nello sforzo di voler spiegare in dettaglio come e perché sia successo tutto, senza riuscire di fatto a spiegare neanche in minima parte l’altezza e la complessità delle situazioni a cui certi personaggi giungono. Lo psicologo americano J. Hillman ha riproposto recentemente il concetto di ‘codice dell’anima’, vale a dire l’idea “che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.” (Il codice dell’anima, Adelphi Ed., p.21) Ciò che siamo, in questa prospettiva, non è il frutto delle circostanze, dell’ambiente, del carattere che abbiamo ereditato, ma questi sono solo strumenti che sollecitano la percezione dell’unicità del nostro destino e contribuiscono a realizzarlo. In termini grafologici, la scrittura non spiega il nostro destino e spiega solo in parte la nostra storia, in quanto la personalità costituisce uno dei mezzi attraverso i quali il destino individuale si compie. In questo senso l’anima ci sceglie per vivere la sua vita, per fare quella determinata esperienza della realtà, attraverso un certo corpo e una certa personalità che sono in grado di reggere quella esperienza. Per questo un avventuriero che scopre un continente sconosciuto non può avere la stessa struttura di personalità che consente a un altro di passare anni ad affrescare una cappella: al di là di quello che può essere il potenziale intellettivo di entrambi, uno ha bisogno di audacia, irrequietezza e intraprendenza per muoversi in spazi quasi infiniti e l’altro di dominio totale delle sue energie per portare a termine un compito in condizioni quasi di immobilità fisica. Ma queste tendenze sono strumenti, non fini, in quanto la personalità non può spiegare se stessa, ma fa appello ad altro che resta al di fuori di sé: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi e, guarda caso, si ha proprio quella struttura di personalità che ci consente di vivere quelle, e solo quelle, determinate esperienze. Nel raccontare le personalità dei grandi ci limiteremo, pertanto, a prendere atto della struttura della psiche attraverso l’evidenziazione dei principali segni grafologici, e soprattutto di quelli che hanno ‘segnato’ in modo vistoso, per la loro presenza, o la loro assenza, o il loro squilibrio, l’individuo in esame. Ma mentre esaminiamo quello che l’individuo mostra di se stesso attraverso la sua struttura di personalità, non si può dimenticare ciò che non c’è e non ci potrà mai essere nella scrittura: l’anima che ha dato necessità e direzione a quella esistenza.